lunedì 31 dicembre 2012

Addio 2012. Noi c'eravamo.


Il 13 maggio 2012 è una di quelle date che i veri juventini non scorderanno mai. Un giorno straordinario - perché se vincere per la Juventus è sempre stata la normalità, quel giorno vincere è stata una liberazione, è stato togliersi di dosso un macigno che il popolo bianconero si portava dietro da troppo tempo. Un giorno fuori da ogni logica, fuori da ogni schema. Perché il 13 maggio la Juventus ha ritrovato se stessa. Perché dopo anni bui, gestioni insensate, scelte inappropriate la Juventus è tornata. Perché quel giorno è finito l'incubo iniziato nell'estate 2006 con la revoca di due scudetti, la serie B con penalizzazione, il terremoto societario, la squadra da rifondare. Perché i due scudetti non torneranno mai, ma le forze in campo, gli equilibri del calcio italiano quel giorno sono tornati esattamente come erano nel 2006: Juventus, Milan, il resto.
L'ultimo trofeo lo aveva alzato Del Piero il 14 maggio 2006, sul neutro di Bari. Era il ventinovesimo scudetto della storia bianconera. A chiudere il cerchio non poteva che essere lo stesso Del Piero, sei anni dopo, alla sua ultima partita di fronte ai propri tifosi (ultima per scelta del presidente, non sua).
Del Piero, il filo rosso di tutte le Juventus degli ultimi 19 anni: quelle di Trapattoni, Lippi, Ancelotti, Capello, Deschamps, Ranieri, Ferrara, Zaccheroni, Del Neri, Conte. L'uomo dei 289 gol, delle 705 presenze, dei 18 trofei alzati, tutti (gol, presenze, trofei) con una maglia, "One Love". Quel giorno prese un colpo al ginocchio pochi secondi dopo l'inizio della partita. Non stava bene, corricchiava, si toccava il ginocchio. Conte gli chiese se volesse il cambio. «No», risposta secca. Ero lì quel giorno e ricordo che al momento del contatto, con Del Piero steso a terra, lo stadio smise di respirare per qualche secondo. La gente era lì tutta per lui. Io ero lì per lui. Sapevo che avrebbe lasciato il segno, nonostante tutto, ancora una volta. Poco dopo sarebbero arrivati l'ultimo gol, l'ultima uscita di scena, la standing ovation infinita. Il trofeo alzato al cielo.
Doveva finire così. Non ho mai smesso di crederci. Io c'ero. Noi c'eravamo.

domenica 4 novembre 2012

Tagliavento e la dimostrazione che è solo invidia

Il primo errore della partita, dopo una manciata di secondi, non è di Tagliavento ma del suo assistente, il guardalinee Preti, che non si accorge dell'evidente fuorigioco di Asamoah. L'azione porta al gol di Vidal. Polemiche. L'errore vero del primo tempo di Tagliavento è invece la mancata espulsione di Lichsteiner per fallo su Palacio. Polemiche a non finire. Comunque due errori pesanti, che hanno condizionato la partita nel primo tempo. Facciamo finta di dimenticare l'errata segnalazione di un fuorigioco a Giovinco, a fine primo tempo, perché chiaramente i media non la considerano. E ciò che i media non considerano non esiste, per definizione.

Dopo 45 minuti ricominciano le solite, ormai scontatissime, considerazioni sulla Juventus e la sua gloriosa storia, fatta di successi e trofei, a quanto pare conquistati in modo dubbio. Considerazioni che possono essere condensate efficacemente nelle dichiarazioni post partita del leader popolare di questo filone di pensiero, Massimo Moratti: «Dopo 17 secondi prima mi sono preoccupato che eravamo partiti male, poi quando ho visto il fuorigioco ho pensato alla solita storia». Tradotto: la Juventus sa vincere solo comprando le partite. Il gol di mano di Adriano, all'epoca giocatore interista, nel derby scudetto contro il Milan, è evidentemente passato e dimenticato dal presidente nerazzurro e dai suoi seguaci. Come è dimenticato che tra i suoi numerosi trofei l'Inter ha anche uno scudetto conquistato con questa classifica: Juventus 91, Milan 88, Inter 76. Non torna? Pazienza. Fatevelo tornare perché ciò che vince l'Inter non si discute, per definizione.

Accade poi che dopo 45 minuti, per regolamento, c'è l'intervallo. L'arbitro se lo ricorda e le squadre vanno negli spogliatoi. Dopo 15 minuti le due squadre tornano regolarmente sul campo. Anche l'arbitro fa altrettanto, torna sul campo e lo fa con le idee molto chiare. Evidentemente negli spogliatoi la terna (anzi ora gli arbitri sono addirittura cinque) ha capito di avere fatto dei pasticci e inizia il secondo tempo determinata a riequilibrare gli errori. Tagliavento incomincia la sua collezione di ammonizioni a giocatori juventini (Pirlo, Bonucci e Chiellini ammoniti ingiustamente), Cambiasso continua a godere di un credito illimitato e commette altri due falli che potevano valere tranquillamente almeno un giallo. Vidal, in un contrappasso che appare dantesco, sconta sulle sue caviglie la colpa di aver segnato un gol viziato da fuorigioco,e quando Juan Jesus lo colpisce in un tentativo di ripartenza con la palla già calciata via dal centrocampista della Juve, Tagliavento decide proprio di non fischiare. Il rigore su Milito è generoso, la trattenuta di Marchisio su Milito c'è ma Milito si lascia cadere. Fosse successo nell'altra area, statene certi, non ci sarebbe stato nessun rigore. Un atteggiamento, quello di Tagliavento, che sa tanto di compensazione dopo i due pesanti errori del primo tempo. Un atteggiamento che dimostra che non c'è niente di premeditato negli errori del primo tempo. Sono errori importanti ma nascono da cattive interpretazioni. Se dietro gli errori arbitrali ci fosse stata la mano lunga della Juventus, come molti sostengono, Tagliavento non sarebbe uscito dagli spogliatoi con l'obiettivo di compensare la situazione. Ogni dietrologia è ingiustificata e fastidiosa. È ora di finirla con certi discorsi.

Ha vinto l'Inter, meritatamente. Le analisi si fermino qui. A fine partita la Juventus ha stretto la mano ai vincitori. Perché chi ha imparato a vincere sul campo, col sudore, accetta anche la sconfitta.

giovedì 1 novembre 2012

Il punto in vista di Juventus-Inter

Juventus. Il campionato 2012/2013 lo vincerà la Juventus, su questo personalmente ho sempre avuto pochissimi dubbi. Ha l'organico migliore, ha una feroce fame di vittoria e il gioco di gran lunga più convincente. Nonostante un'estate bollente per il ridicolo caso Conte, montato ad arte dal sempreverde mondo antijuventino (la Juventus la si ama o la si odia), gli equilibri non sono cambiati. La squadra ha raggiunto una maturità tale che può fare a meno della presenza fisica del proprio allenatore durante le partite: le nove vittorie nelle prime dieci partite stanno lì a testimoniarlo. Poter rinunciare all'allenatore durante le partite non significa che la Juventus possa fare a meno di Conte, unico vero punto fondamentale e insostituibile di questa squadra. Lo sa bene Agnelli, che quest'estate non ci ha pensato un attimo a sostituirlo, nemmeno nel bel mezzo della campagna mediatica antijuventina che non a caso ha messo nell'occhio del ciclone proprio l'allenatore della Juventus, l'uomo più di ogni altro simbolo di una rinascita che non deve essere evidentemente piaciuta a tutti. Piaccia o non piaccia, oggi la società Juventus è un corpo solido e ben amalgamato. La proprietà si è messa da parte, saggiamente verrebbe da dire, lasciando la parte operativa a persone più competenti. Dirigenza e staff tecnico lavorano in totale sintonia e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. La Juventus ha allungato ieri sera a 49 i risultati utili in campionato (-9 dal record storico del Milan di Capello dei primi anni novanta), ha il miglior attacco del torneo (22 gol segnati), la miglior difesa (5 reti al passivo) e ha mandato in gol 12 giocatori finora in dieci turni di campionato. Una superiorità evidente che la pone almeno un gradino sopra a tutte le rivali. Solo gli impegni e le fatiche di Champions potrebbero riaprire i giochi di un campionato, almeno al vertice, già scritto.

Inter. Non credo che sia una forzatura dire che oggi l'Inter è Stramaccioni. Nel finale della scorsa stagione Moratti, in un barlume di lucidità o disperazione, ha scelto di affidare la guida tecnica a un ragazzo di 36 anni, un tipo umile e intelligente, senza nessuna rilevante esperienza da calciatore (e allora? Neanche Sacchi e Mourinho sono stati calciatori) e senza nessuna esperienza da allenatore ad alti livelli (prima di prendere in mano la prima squadra aveva allenato gli Allievi della Roma e la primavera dell'Inter). Ma le idee pagano, e Stramaccioni ne ha molte e molto buone. Ha studiato e si è laureato in Legge discutendo una tesi in diritto commerciale sul tema delle società sportive quotate in Borsa. Da perfetto sconosciuto si è conquistato il rispetto e l'ammirazione di calciatori e campioni che fino a un paio di anni prima rispondevano agli ordini di un certo Mourinho, uno che arrivava alla Pinetina avendo già vinto tutto, e tutto più volte. È saltato dai ragazzini della primavera ai campioni della prima squadra con una naturalezza da predestinato. Ha ereditato un gruppo allo sbando, in una complicata fase fase di rifondazione di una squadra che viveva ancora dei vecchi splendori mourinhiani. Ha indirizzato il mercato estivo, fatto al risparmio (una volta tanto in casa Inter!) ma con logica, seguendo un preciso credo tattico. Dimostrazione che spendere poco non significa spendere male (e viceversa spendere tanto non significa spendere bene, capito Moratti?). E i numeri ora parlano per lui: dopo dieci giornate l'Inter viaggia alla media di 2,4 punti a partita. Con questi numeri nove volte su dieci si vince lo scudetto. Sabato l'Inter verrà a Torino con ambizioni da scudetto. Non so dire come finirà, ma non credo che l'Inter abbia le risorse per tenere questo ritmo fino alla fine. Centrerà probabilmente l'obiettivo Champions, secondo o terzo posto. Qualcosa di impensabile fino a pochi mesi fa, quando la squadra di Moratti viaggiava nelle paludi di metà classifica, senza speranze e senza idee di ricostruzione. Quelle idee le sta portando questo ragazzo. Chapeau, Strama.

domenica 30 settembre 2012

L'ambasciatore del calcio


Prima di prendere la sua decisione e renderla nota al mondo intero deve avere riflettuto a lungo quest'estate, Del Piero. Deve avere ripensato alla sua storia con la Juventus, alle vittorie e alle sconfitte, ai gol fatti, alla fascia di capitano, ai record. Diciannove anni sono tanti, tantissimi per giocare a calcio con la stessa maglia, e lasciano dentro tante emozioni, tanti ricordi. Avrà provato nostalgia, ripensandoci.
Forse proprio per questo alla fine ha scelto di continuare a giocare a 15mila chilometri di distanza da Torino, per scacciare la nostalgia e i ricordi e ripartire da capo. Ha scelto Sydney, l'Australia, dopo averci pensato un'estate intera. Poteva rimanere nel calcio che conta, lo volevano il Southampton e il Liverpool dalla Premier, il Celtic dalla Scottish League, il Malaga dalla Liga. Ma Del Piero ha preso tutti controtempo, con una delle sue finte micidiali, e ha scelto l'Australia. Non per soldi, come qualcuno ha scritto: l'Asia e gli Emirati avevano pronte offerte faraoniche per lui, ma Del Piero le ha tutte rifiutate, cortesemente si capisce.
Ha scelto Sydney, «qualcosa che non avesse punti di contatto con la Juventus», per rispetto. Andrà a scoprire una città bellissima e un continente in cui la qualità della vita è altissima. Si porterà dietro la famiglia, farà un'esperienza irripetibile e si confronterà con una nuova lingua e nuove culture. Ne uscirà arricchito, sicuramente. Il Sydney gli ha cucito addosso il ruolo di ambasciatore del calcio australiano e lo ha fatto sentire importante. Del Piero ha apprezzato e ripagherà sul campo. Perché chi lo conosce sa che non è andato in Australia per riposare: «Non sono venuto qui per finire la mia carriera ma per iniziarne una nuova», le prime parole dopo essere sceso dall'aereo. Per rendere l'idea, Del Piero si è portato dietro Giovanni Bonocore, il personal trainer che da anni ne cura la preparazione nei minimi dettagli. Non è andato per fare vacanza, anche gli australiani se ne accorgeranno presto.
Giocherà in celeste, dopo una vita in bianconero, e lo farà dall'altra parte del mondo. La gente non si è stancata di lui, e Mediaset ha annunciato di avere comprato i diritti delle 27 partite del Sydney, che trasmetterà in diretta. Sabato prossimo, ore 8.30 italiane, Pinturicchio debutterà con la sua nuova squadra. In molti, dall'Italia, saranno davanti al televisore per vedere ancora il vecchio campione, il capitano. Gli australiani invece inizieranno a scoprirlo, perché per loro Pinturicchio è solo un marziano venuto a giocare a calcio da molto lontano. Si farà conoscere e apprezzare, Del Piero. Come ha sempre fatto.

giovedì 9 agosto 2012

Grazie Josefa, unica vera portabandiera


‹‹A Rio racconterò le storie delle altre. Ho iniziato oltre 30 anni fa, da juniores in Germania. È stata una bella carriera. È stato comunque bello sognare insieme. Non mi posso rimproverare nulla››.
Josefa Idem

domenica 8 luglio 2012

Roger e Serena, il ritorno degli dèi


Il 2 marzo dell'anno passato Serena Williams lottava per la vita in una stanza d'ospedale di Los Angeles. Il ricovero d'urgenza e l'intervento tempestivo dei medici riuscirono a salvarla da un'improvvisa embolia polmonare che le stava tagliando il respiro. Sedici mesi dopo Serena è sul mitico Central Court di Wimbledon e tra le mani tiene stretto il piatto d'argento dorato. Il suo quinto successo sull'erba londinese ha un immenso significato non solo sportivo, ma anche e forse soprattutto umano, perché chiude definitivamente la lunga e dolorosa parentesi che aveva messo un grosso punto di domanda sulla sua carriera. Commossa, Serena ha ricordato proprio quei momenti difficili in ospedale anche durante la premiazione, ringraziando le sorelle e la madre per esserle state vicine.
Il tennis femminile vive comunque oggi un periodo di crisi nera, e il fatto che negli ultimi sette tornei del Grande Slam ci siano state sette vincitrici diverse la dice lunga sulla mancanza di una leadership consolidata e di un ricambio generazionale adeguato. Serena va verso i trentuno anni e nel tennis questa è un'età importante, come testimonia il fatto che pochissimi in passato sono riusciti a vincere oltre i trenta. Resta però lei, di gran lunga, la tennista migliore del circuito. E se manterrà le motivazioni giuste e la voglia di stupire, potrà continuare a vincere ancora per qualche anno, ampliando così la sua collezione di 14 Slam.
Wimbledon 2012 rilancia anche un altro ragazzo classe 1981. E' Roger Federer, che dopo due eliminazioni consecutive ai quarti torna a trionfare sull'erba londinese. E' il settimo successo dello svizzero a Wimbledon e il diciassettesimo titolo dello Slam che porta a casa. Una vittoria dal sapore ancora più speciale, perché lo rilancia dopo due anni al primo posto del Ranking ATP. Il tennis maschile vive oggi, al contrario di quello femminile, una fase storica eccezionale, con almeno tre interpreti sopra le righe. Federer, Nadal e Djokovic (con Murray primo degli umani) si spartiscono ormai da anni i titoli dello Slam. Considerando il livello altissimo della competizione e considerando l'età di Federer (che tra un mese compirà trentuno anni), essere tornato numero uno è un altro capolavoro, l'ennesimo della sua leggendaria carriera.
Li hanno dati più volte sul viale del tramonto, in passato. Ma l'autunno dei campioni è una stagione imprevedibile e a volte meravigliosa, come per questi due ragazzini di quasi trentuno anni che si divertono a sfidare il tempo. Stasera al grande ballo dei vincitori di Wimbledon ci saranno ancora loro, Roger e Serena.

sabato 30 giugno 2012

Finisce l'era Del Piero. Alla Juventus.


Si chiude così il cerchio, oggi 30 giugno 2012. Da domani, dopo diciannove anni tutti in bianconero, Del Piero sarà un giocatore senza contratto e senza squadra. Finisce ufficialmente la sua storia con la Juventus, dopo che nella sostanza si era già conclusa lo scorso 20 maggio, finale di Coppa Italia. Si sta cercando una nuova casa Pinturicchio, lontano da Torino e lontano dall'Italia. Forse la troverà dall'altra parte del mondo, in America, o forse ci sarà il colpo di scena e rimarrà in Europa. «Non ci sono situazioni concrete, ma tante ipotesi che stiamo vagliando: qualcosa è già uscito fuori, qualcosa ancora no. Non conta il campionato, ma il progetto. Alessandro ha sempre detto che gli Usa esercitano un fascino particolare», parla così suo fratello e procuratore Stefano. Intanto Del Piero si gode le vacanze e lascia tutti i discorsi contrattuali in mano al suo staff.
Il ritorno alla Juventus nei panni di dirigente non è vicino come molti ingenuamente pensano. Del Piero è nato per giocare, come lui stesso ama ripetere. E giocherà ancora, lo farà più a lungo di quanto la gente creda. La sfida sportiva che da un po' lo anima più di ogni altra cosa è quella contro il tempo. Riuscire a rimanere competitivo nonostante gli anni, questa adesso è la sua grande scommessa. E ovviamente continuare a divertirsi facendo la cosa che più gli piace fare: «Oggi sono uno di quei bambini che può comprarsi tutti i giochi che vuole, ma tanto il suo preferito resta il pallone». E ancora: «Per fare il dirigente ho una vita davanti, sempre che lo farò e sempre che me lo chiedano». Rispose così Del Piero, lo scorso 13 maggio, dopo aver giocato la sua ultima partita allo Juventus Stadium, a chi gli chiedeva se non fosse disposto a cambiare il suo ruolo pur di rimanere alla Juventus. Risposta inequivocabile, con tanto di stilettata finale diretta a chi già quest'anno gli aveva preparato un posto nel museo bianconero, non in campo. Del Piero giocherà ancora, come ha fatto quest'anno, anzi più di quest'anno (in cui nonostante tutto ha messo a segno altri gol decisivi). E la Juventus da parte sua non ha alcuna intenzione di richiamarlo a casa, neanche in altra veste: troppo grande Pinturicchio perché qualcuno gli faccia spazio.
Si separano così le strade di Del Piero e della Juventus, ufficialmente e chissà per quanto tempo. A Del Piero mancherà la Juventus, ma alla Juventus mancherà Del Piero. Moltissimo, e un giorno se ne accorgerà. Forse quel giorno lo richiamerà a casa. Forse. Sarà solo il tempo a dirlo.

Il saluto di Ale sul proprio sito. Grazie Ale, sempre al tuo fianco.

domenica 24 giugno 2012

Tecnologia italiana e fantasia spagnola


Alonso primo, Raikkonen secondo, Schumacher terzo: sul podio del GP d'Europa si sono accomodati il presente, il passato prossimo e il passato remoto della Ferrari. Ha vinto la Rossa che ha portato sui tre gradini del podio la sua tradizione vincente, ma prima ancora ha vinto, stravinto, Fernando Alonso, il pilota più forte e più in forma del Mondiale. E' stato un GP assurdo, con l'undicesimo Alonso che è arrivato primo e il dodicesimo Schumacher che è arrivato terzo, il tutto su un circuito nel quale sorpassare è difficilissimo. Il Gran Premio di Valencia, ottava prova del Mondiale di Formula Uno, taglia in due la stagione: non siamo ancora a metà calendario, ma Alonso sta dando una dimostrazione di superiorità spaventosa. Non ha la macchina più forte - la Ferrari è stata progettata male e aggiustata in corsa, e la Red Bull e la McLaren restano superiori - ma si trova in testa al mondiale con venti punti sul secondo, l'eterno sottovalutato Mark Webber. Fa bene Domenicali a ripetere che il Mondiale finisce a novembre, ma la superiorità che Alonso continua a dimostrare gara dopo gara è impressionante. Oggi nessuno come lui è capace di essere aggressivo e allo stesso tempo lucido, azzardare manovre impossibili e allo stesso tempo controllare il rischio. Era dai tempi del miglior Schumacher che in Formula Uno un pilota non faceva la differenza in modo così evidente. L'anno scorso Vettel ha stravinto il titolo meritando, ma non c'era partita perché la Red Bull aveva parecchie marce in più sui rivali. Il capolavoro che sta compiendo Alonso è quello di vincere con una macchina normale. Basta vedere cosa (non) riesce a fare il suo compagno di squadra Felipe Massa, undici punti nella classifica mondiale, esattamente cento in meno di Alonso. Forse si sta aprendo un nuovo ciclo vincente per il Cavallino, anche se è presto per dirlo. Sicuramente la Rossa ha trovato il degno erede di Schumacher, e la gara di oggi ha confermato definitivamente questa sensazione che già si percepiva da tempo. Rimane a questo punto un solo dilemma: la Ferrari sarà capace di mettere a disposizione di Alonso un quantitativo minimo di tecnologia per lanciare la sua corsa al titolo iridato? La tecnologia italiana sarà all'altezza della fantasia spagnola?

venerdì 15 giugno 2012

Biscotto o contrappasso?


27 maggio, Coverciano, ritiro della nazionale.
Buffon parla ai microfoni di SkySport: «Sicuramente alcune volte se qualcuno ci pensa bene cosa devi fare? Si dice meglio due feriti che un morto. E' chiaro che le squadre le partite se le giocano e sarà sempre così, però penso che ogni tanto anche qualche conto è giustificato farlo».
Passano diciotto giorni, nel frattempo comincia l'Europeo e l'Italia pareggia le prime due partite. Si crea la stessa identica situazione di otto anni fa, eravamo a Euro 2004 in Portogallo e il 2-2 tra Svezia e Danimarca ci mandò a casa rendendo vano il successo contro la Bulgaria. Torna l'incubo "biscotto", stavolta tra Spagna e Croazia.
14 giugno, Poznan, post partita contro la Croazia.
Parla nuovamente Buffon, stavolta ai microfoni della Rai: «La qualificazione dipende tutto da noi, ho la certezza che se dovessimo vincere l'ultima contro l'Irlanda saremmo qualificati. E poi se Croazia-Spagna finisse proprio 2-2 si metterebbe a ridere tutta l'Europa». E ancora: «La Spagna ha dei giocatori con un pedigree che non permette l'etichetta di antisportività e di far ridere l'Europa».

Inutile sottolineare l'incoerenza delle due versioni di Buffon. Se proviamo a riassumerle in un unico pensiero viene fuori qualcosa della serie: è normale che due squadre possano accordarsi per un pareggio, possono farlo purché non danneggino me e la mia squadra. Ora non si tratta di fare i moralisti, questo lo lascio ad altri, però non si può neanche fare a meno di osservare la pochezza di questo ragionamento. Forse dal capitano della nazionale sarebbe lecito attendersi qualche uscita (verbale) migliore. E' evidente che oggi non siamo proprio nella condizione di fare prediche a nessuno, né in casa nostra, nè tantomeno ad altri. L'Italia invece farebbe bene a concentrare tutte le proprie energie sulla sua partita, quella contro l'Irlanda del Trap, nella quale ha un solo risultato a disposizione: la vittoria, possibilmente con molti gol di scarto.
Riguardo a Spagna-Croazia. La Spagna è campione di tutto e non penso avrà bisogno di ricorrere a certi mezzucci per accedere ai quarti di finale. Ma se alla fine Spagna e Croazia facessero davvero un bel biscotto, un 2-2 pirotecnico in grado di fare fuori i temuti azzurri dalla fase finale dell'Europeo, nessuno potrebbe comunque giocare a fare l'indignato. Il "biscottone" spagnolo-croato sarebbe forse una bella lezione, un contrappasso perfetto per chi solo diciotto giorni fa sosteneva che sono meglio due feriti che un morto. Strano mondo, il calcio.

lunedì 11 giugno 2012

Euro 2012: dove può arrivare la Juve?


No, non ho sbagliato il titolo. Nessun errore. Volevo proprio scrivere Juve e non Italia. E' una piccola provocazione ovviamente, ma ieri pomeriggio mentre guardavo la partita mi sono chiesto se stesse giocando ancora la Juve o se davvero era la partita d'esordio della nazionale italiana agli Europei 2012.
Di sicuro l'Italia scesa in campo ieri nel tardo pomeriggio contro la Spagna era una parente strettissima della Juventus di Conte. Non solo perché sei giocatori su undici erano bianconeri (Buffon, Chiellini, Bonucci, Pirlo, Marchisio, Giaccherini), ma perché il modo di giocare era lo stesso introdotto da Conte quest'anno: 3-5-2 se vogliamo usare i numeri. Un modo di giocare che Conte ha usato per esaltare le qualità dei propri centrocampisti centrali (Marchisio e Vidal) e per dare modo a Pirlo di esprimere al meglio le sue qualità eccezionali. Prandelli è stato intelligente e ha colto al volo l'opportunità che aveva davanti a sé, quella di accomodare il modello Juve sulla nazionale. Ecco quindi la scelta di far giocare Maggio a destra - già abituato a giocare con la difesa a tre nel Napoli - che si è calato nei panni di Lichsteiner. Chiarissima anche la scelta di far giocare Giaccherini sulla sinistra, un giocatore molto generoso che nella Juve ha ampiamente dimostrato di saper fare entrambe le fasi. Thiago Motta poi nel ruolo di Vidal, con meno vigore atletico del cileno, ma pronto a inserirsi spesso e volentieri in fase offensiva, come scritto nel copione bianconero. E le due punte, Cassano e Balotelli, chiamate - esattamente come avviene nella Juve - a sacrificarsi molto anche in fase difensiva; lavoro in cui ieri, soprattutto Balotelli, è un po' mancato. Non credo che da Balotelli potremo aspettarci qualcosa in più sul piano del sacrificio, ma la giocata improvvisa, geniale, quella sì ce la possiamo aspettare, ed è il vero motivo per cui Prandelli insiste e - credo - insisterà ancora con lui, nonostante il gol di Di Natale. L'unica vera novità introdotta dall'Italia ieri è rappresentata da De Rossi centrale difensivo. Una soluzione a cui Prandelli ha pensato dopo l'infortunio di Barzagli, e che è stata ispirata in origine da Luis Enrique, che aveva già provato De Rossi in quel ruolo nella Roma nel corso della passata stagione. E la soluzione ieri ha funzionato benissimo, perché De Rossi ha interpretato il ruolo di centrale difensivo con la testa del centrocampista. In fase di possesso infatti era proprio De Rossi a impostare per primo l'azione dell'Italia. Un regista difensivo insomma, dieci metri dietro al vero regista della squadra: Andrea Pirlo.
Quindi, dove potrà arrivare questa Juve che veste la maglia azzurra? E' difficile fare pronostici, soprattutto in manifestazioni brevi come l'Europeo, in cui ci sono molte squadre più o meno sullo stesso livello. Quello che possiamo dire è che l'Italia ha un sistema di gioco molto buono, e già questo è un ottimo punto di partenza. Come si diceva tempo fa (vedi qui) il grande lavoro fatto dalla Juventus nell'ultimo anno ha portato benefici a tutto il calcio italiano, e la partita di ieri sta lì a dimostrarcelo. La Figc ringrazi e passi oltre, a testa bassa.

domenica 3 giugno 2012

Il ritorno di Zdeněk Zeman, il rivoluzionario


Alla fine ce l'ha fatta, Zdeněk Zeman. La grande occasione l'ha avuta ancora: tredici anni dopo sarà ancora lui ad allenare la Roma. L'ufficialità dovrebbe arrivare lunedì, ma ormai la cosa è fatta. Tornerà dunque sulla panchina giallorossa Zeman, dopo tanto tempo e molte altre avventure: Fenerbahçe, Napoli, Salernitana, Avellino, Lecce, Brescia, ancora Lecce, Stella Rossa, Foggia e Pescara. «Ho pensato che, non essendo più un ragazzino, mi restavano due o tre anni per tornare a una grande squadra: questa è la mia ultima chance». Il ritorno di Zeman è stimolante per tutti, per chi lo ama e per chi lo odia. Sì perché il boemo è un personaggio che divide, prendere o lasciare, con lui non esistono mezzi termini. Tutti adesso sono curiosi di rivederlo nel grande calcio, di capire cosa riuscirà a fare su una panchina importante. Tredici anni dopo l'ultima volta.
Eppure il modo in cui la stampa ha accolto il ritorno di Zeman è abbastanza stucchevole. Già si sono alzati gli inni trionfali, quando la Roma non ha ancora ufficializzato il suo arrivo. Zeman, dicono molti giornalisti, ha già vinto perché è stato capace di rianimare l'ambiente romano, triste e depresso dopo l'ultima, deludentissima, stagione. Nessun allenatore oggi in Italia gode della simpatia popolare e mediatica di cui gode Zdeněk Zeman. In effetti la piazza romana appare entusiasta per il grande ritorno del boemo, ma questo era ampiamente prevedibile. I tifosi sono per definizione un popolo di sognatori e il gioco di Zeman è ideale per innescare la fantasia della gente. Ma dal punto di vista dei risultati, la carriera del boemo parla chiaro: in trent'anni gli unici trofei alzati sono stati un campionato di serie C2 a Licata, e due campionati di Serie B, uno a Foggia e uno a Pescara quest'anno. Pochino per uno che gode della sua fama. Ma proprio qui sta la rivoluzione di Zeman, capace di costruire un vero e proprio marchio (Zemanlandia, ricordate?) non sui risultati ma sulla proposta di gioco. Proposta di gioco che si è dimostrata essere perdente o, se preferite, non così vincente come si vuol far credere. Ma com'è possibile che sia avvenuto questo, oltretutto in Italia, un paese in cui, calcisticamente parlando, i risultati sono tutto? Le ragioni non vanno cercate nell'allenatore, ma nel personaggio Zeman.
Quello che nel 1998 lanciò accuse pesantissime al mondo del calcio italiano, sostenendo che le società facessero un uso eccessivo di farmaci. Quello che usò come esempi per dare fondamento alle proprie argomentazioni i calciatori della Juventus Alessandro Del Piero e Gianluca Vialli. Tutte accuse che la giustizia ha dimostrato essere infondate - e le sentenze stanno lì a dimostrarlo - ma che molti hanno accolto con esaltazione, vedendovi qualcosa che si avvicinava a un tentativo di purificare un mondo considerato marcio, il calcio. Insinuazioni e sparate che sono state determinanti nel creare e alimentare quel marchio che va sotto il nome di Zemanlandia appunto: un'isola felice dove, si dice, il calcio è genuino, sano e spettacolare. Non vincente, quello no, ma che importa? Dopotutto si parla di Zdeněk Zeman, il rivoluzionario.

mercoledì 23 maggio 2012

A chi il numero dieci?

«È bello che tutti i bambini possano sognare di giocare con una maglia che in 113 anni è stata vestita da grandissimi campioni. La Juve c'è stata, c'è e ci sarà a prescindere da Alessandro Del Piero». Alessandro Del Piero

Ora anche l'ultima pagina del libro è stata scritta. 19 anni di Juve, 705 partite, 290 gol; otto scudetti, una promozione dalla serie B, una Coppa Italia, quattro supercoppe italiane, una Champions League, una Supercoppa europea, una Coppa Intercontinentale. Questi i numeri finali di una storia che, è scontato dirlo, va ben oltre i numeri.
Domenica notte il cerchio si è chiuso e ora anche Del Piero è diventato un grande classico della storia bianconera. L'uomo dei record, quasi tutti, il riferimento per ogni calciatore che veste e vestirà la maglia della Juventus. Giocherà ancora Pinturicchio, lo farà lontano da Torino e lontano dall'Italia: non poteva che essere così. Inghilterra o USA le alternative. Venerdì prossimo, in occasione della conferenza stampa convocata dallo stesso Del Piero, sapremo probabilmente qualcosa di più sul suo futuro.
Volta pagina dunque, Del Piero. E con lui la Juventus, che adesso si trova a gestire il complicato periodo del post Del Piero. Agnelli ha programmato già da molto tempo questa situazione, come dimostra l'annuncio dello scorso ottobre: la Juventus ha avuto quindi tutto il tempo per organizzare il proprio futuro senza il suo capitano. Girano grandi nomi: Van Persie, Higuain, Cavani. Ma al momento il favorito per vestire la maglia numero dieci sembra Marco Verratti, un ragazzino che si è fatto notare nella grande stagione del Pescara di Zeman. Sarebbe suggestivo vedere un ragazzo che deve ancora compiere vent'anni e che deve ancora debuttare in serie A vestire la maglia numero dieci di Del Piero. Molto suggestivo e molto pericoloso. Perché questa maglia è molto pesante, soprattutto alla Juventus e ancora di più oggi che nella mente di tutti è legata a doppio filo a Del Piero. Non basta avere talento per avere il dieci, ci vuole personalità, molta. Se non si trova sulle spalle giuste, questo numero può diventare un problema, un peso troppo grande. La Juve non deve avere fretta e se non troverà l'uomo giusto non deve avere paura ad aspettare anche una stagione, il che non vuol dire ritirare la maglia. Il dieci è il numero benedetto per eccellenza, quello dei campioni, quello che hanno portato sulle spalle Pelè e Maradona. Per i bambini è la maglia da farsi regalare, per tutti è la maglia dei sogni. Giustissimo non ritirarla. Ma attenzione a non trasformare questo numero in una maledizione.

giovedì 17 maggio 2012

I pensieri del minuto cinquantasei


Una partita, una sola partita, e poi calerà il sipario sulla storia tra Del Piero e la Juventus. Una storia lunga diciannove anni sulla quale domenica in tarda serata verrà scritta la parola fine. Stavolta davvero, non c'è più spazio per speranze o colpi di scena. Del Piero ha già lasciato la sua casa, lo Juventus Stadium, domenica scorsa: il padrone non lo voleva più e lui se ne è andato così, nel suo stile, sommerso da un diluvio di applausi e dalle lacrime della sua gente. Uno spettacolo surreale perché avvenuto durante la partita, dopo il cambio con Pepe al minuto cinquantasei. Tutti lo volevano ancora Del Piero, almeno un'altra stagione, per rivederlo nelle notti di Champions e provare ancora qualche brivido con lui. Tutti, meno che Andrea Agnelli e qualcun altro all'interno della società. Una storia lunghissima, quella tra Del Piero e la Juventus, eppure c'è nell'aria quella strana sensazione che sia finita troppo presto, e comunque nel modo sbagliato. Con quell'annuncio del presidente agli azionisti, lo scorso ottobre, senza stile, senza rispetto, fuori tempo. Per questo domenica la gente ha applaudito così a lungo e si è commossa fino alle lacrime, al momento della sostituzione di Del Piero. Io ero lì, allo Juventus Stadium, e quel rumore, così avvolgente, forte, pulito, non lo posso scordare. Credo ci siano tante cose dietro a questa straordinaria dimostrazione di affetto. C'è il giocatore Del Piero, e questo è ovvio. C'è la persona Del Piero, che tutti hanno imparato a conoscere, chi più chi meno, e ad apprezzare. Ma c'è anche il tempo che passa. Ci sono diciannove anni che se ne sono andati, e te ne accorgi lì, al minuto cinquantasei di una partita di calcio. Vedi il tabellone delle sostituzioni con sopra quel numero, il 10, e ti rendi conto che il tempo è volato, e ti scorre davanti agli occhi il film di un bel pezzo della tua vita. E poi c'è, come dicevo, la sensazione che questo sogno poteva continuare ancora, almeno un altro anno. Perché Del Piero ha dimostrato di essere ancora in grado di decidere le partite, nonostante lo scarsissimo impiego. Quel gol alla Lazio è il più importante della stagione, anche se qualcuno faticherà ad ammetterlo.
Finisce così questa storia che nessuno avrebbe mai voluto finisse. Con Del Piero che giocherà l'ennesima finale della sua carriera, quella della Coppa Italia, domenica prossima, a Roma. Di nuovo a Roma, come il 22 maggio 1996, quando la Juventus sconfisse l'Ajax ai calci di rigore e alzò al cielo la sua seconda, e al momento ultima, Coppa dei Campioni. In quella partita Del Piero era titolare, e lo sarà anche domenica prossima, sedici anni dopo. Il cerchio si sta per chiudere.

sabato 5 maggio 2012

Vecchi fantasmi sotto la pioggia


Tutte le previsioni meteo dicono che domani sera a Trieste ci sarà un temporale. Il gioco del calcio ha poche regole, anche piuttosto chiare. Ma questa è davvero la più semplice: per poter giocare una partita, la palla deve rimbalzare. Sono ottimista e penso che la squadra avrà la forza di rialzarsi dopo il passo falso col Lecce. Ma se dovesse venire il diluvio, spero che stavolta qualcuno si ricordi del regolamento.

giovedì 3 maggio 2012

Più uno a 180 minuti dalla fine


Cosa puoi dire a uno che dopo aver fatto il fenomeno al Mondiale 2006 è sceso in b per attaccamento alla maglia bianconera? Poteva andare ovunque, tutti lo volevano, ma è rimasto alla Juve, in quella Juve, una squadra da rifondare, senza società e senza idee. E' rimasto, ed è uno dei motivi per cui la Juve ancora oggi è la Juve. Ha fatto un errore, come li fanno tutti. Solo che chi sta in porta può fare meno errori degli altri. Da ieri sera lo ringrazio ancora di più, il grande Gigi Buffon.
Siamo a più uno e mancano due giornate, tutto il resto non ha più senso. Dimentichiamolo.

mercoledì 18 aprile 2012

Il tramonto in bianco e nero

Dica la verità: avrebbe preferito finire la carriera alla Juve.
«Era quello che sognavo. Questi vent’anni sono stati ricchi di emozioni, con momenti straordinari e a volte duri: ho provato il brivido di scrivere quasi tutti i record bianconeri. Ormai però le cose sono cambiate»
(tratto dall'intervista a Del Piero sul numero 16 di Vanity Fair)
Manca solo il finale, e tra poco più di trenta giorni conosceremo anche quello. Poi si aprirà il libro dei ricordi, e non ci sarà più bisogno di aggiornarlo con altre presenze, gol, record. Le parole di Del Piero a Vanity Fair sono molto amare e ci dicono molto su come abbia vissuto questa sua ultima stagione in bianconero («la più difficile della mia carriera»). L'ha vissuta ai margini, come mai gli era successo prima, trovandosi ad affrontare una situazione nuova, forse sorprendente ma non imprevedibile, perché i rapporti con Agnelli erano tesi da tempo e lasciavano intravedere un futuro decisamente incerto. Lo scorso anno la società fece passare quattro lunghi mesi prima di rinnovargli il contratto in scadenza. Quella che doveva essere una formalità si trasformò in un tormentone. Si aspettò fino al 5 maggio, cercando di coprire dietro a quella data tanto cara al mondo juventino (ricorderete il 5 maggio 2002) un'attesa estenuante e immotivata. Prima della firma chiesero a Del Piero se il suo futuro sarebbe stato ancora in bianconero. Lui, con eleganza, rispose: «La società ha detto che le porte sono aperte. Bisogna vedere se per entrare o per uscire». Il feeling con Agnelli non è mai sbocciato. Alcuni dicono che la colpa sia di un video pubblicato su youtube, in cui lo stesso Del Piero annunciava ai fan che avrebbe firmato in bianco un nuovo contratto con la Juventus. La società si sarebbe sentita scavalcata e adesso starebbe consumando la sua lenta vendetta. Quali che siano i motivi, sono probabilmente pretestuosi e nascondono strategie più profonde.
Non realizzerà quindi il suo sogno Pinturicchio, quello di chiudere la carriera con la stessa maglia di sempre. Ma l'impressione è che abbia vinto lo stesso, perché lo hanno scaricato sì, ma lui ha dimostrato (ma scusate cosa deve dimostrare ancora?) di essere un campione puro, capace di decidere le partite nel momento più caldo della stagione. Forse rimarrà a giocare in Europa, o forse andrà in America o chissà dove. Sicuramente giocherà ancora, come dice il titolo (Giochiamo ancora) del suo libro autobiografia in uscita il prossimo 24 aprile. La vita continuerà anche senza la Juve, e dopo il 20 maggio inizierà la sua nuova avventura: «Non so immaginare il mio futuro, è un cambiamento enorme e un po’ mi spaventa, perché sarebbe come andare via di casa una seconda volta. Ma lo vivo come i videogiochi che mi piacevano da ragazzino: un nuovo livello da superare».
Da ieri sulla pagina facebook di Del Piero campeggia la foto di un tramonto. Il tramonto di una storia sportiva tutta in bianconero, o quasi. In bocca al lupo, campione.

venerdì 13 aprile 2012

E ora? #3


Mi fa piacere che adesso spuntino tutti fuori a chiedere il rinnovo, perché io lo chiedevo anche quando c'era un silenzio assordante. Come si diceva da tempo, con quell'uscita di ottobre Agnelli non ha risolto nulla. Se pensava che Del Piero fosse finito, Del Piero gli ha risposto sul campo. Se pensava di chiudere sul nascere ogni nuovo tormentone sul rinnovo, la sua mossa si è rivelata un boomerang perfetto. La lezione più bella che ha dato Del Piero in questa stagione non sono i gol, ancora una volta decisivi. E' stata la sua umiltà nell'avere accettato la panchina, nell'avere accettato i cinque minuti col Genoa e i tre minuti col Napoli all'andata. Tutto questo senza fiatare, per il bene della Juventus. Ha aspettato il suo momento, e adesso è arrivato. Giù il cappello.
E a questo punto del contratto facciano loro (Agnelli & company), perché comunque vada ha vinto ancora lui, Del Piero. Fatevene una ragione.

giovedì 12 aprile 2012

E ora? #2


Comunque vada ha vinto lui. Se rinnoveranno avrà vinto lui, e se non rinnoveranno avrà vinto lui lo stesso. Facciano loro.

lunedì 26 marzo 2012

E ora? #1

Se ne è stato lì, silenzioso, nel pieno della partita, guardandosela dalla panchina. Gli sono piovute addosso critiche, ma del resto, è così da una vita. Lui zitto, abbassa la testa e aspetta il suo momento, probabilmente come faceva da bambino nei campetti di calcio. Si ritaglia uno spazio, quasi non lo si nota, "tanto ormai è finito", dicono. Mentre chi crede in lui ci spera, perché a sperare lo impari solo da quei giocatori scomodi, dati troppe volte per finiti. Entra. Segna. Gli avvoltoi si dileguano di nuovo, o peggio ancora si mimetizzano. E ora li senti, lo elogiano per il giocatore che è. Ma tra una settimana si saranno già dimenticati di questo gol, e avranno dimenticato anche tutti gli altri. E tu, zitto come sempre, sarai pronto a far sentire ancora, anche solo per un attimo, la gioia di un gol. Non a loro, ma a chi, come me, ha visto qualcosa di bello in te, Alessandro Del Piero.

martedì 20 marzo 2012

Finale!

La Juve non muore mai. Questo giocatore non muore mai. Il 20 maggio giocheremo di nuovo una finale dopo tanto tempo. Siamo tornati sulla strada giusta. Grandi ragazzi!

Dietro la semifinale

Solo chi ha vissuto in prima linea l'estate 2006 e ciò che è venuto dopo può capire perché noi juventini diamo tanto valore a questa semifinale. Qualcuno potrà pensare che siamo caduti in basso ed è libero di crederlo. Forse qualcuno ci compatirà se diciamo che seguiremo questo Juventus-Milan come se fosse una semifinale di Champions League. Ma onestamente non ci importa molto di questo.
Nessuno di noi si è dimenticato le grandi notti di Champions, e non ci siamo dimenticati che la Coppa Italia è il trofeo meno prestigioso. Ma soprattutto, non ci siamo dimenticati cos'è la Juventus. Se non avete vissuto gli ultimi sei anni dalla nostra prospettiva, difficilmente potrete capire perché assegniamo un valore così alto a questa partita. E' un valore simbolico più che materiale, perché questa è la partita del riscatto, dopo anni passati in un inferno sportivo nel quale siamo stati brutalmente cacciati senza spiegazioni degne di questo nome. Ci giocheremo dopo molto tempo l'accesso a una finale e solo questo è un motivo di grande orgoglio. Questa sfida dà un senso e una nuova spinta al percorso di ricostruzione che con grande difficoltà la Juventus ha finalmente intrapreso. Indipendentemente da come finirà la semifinale, siamo sulla strada giusta. Questa sfida è lì  dimostrarlo.
Giocherà Del Piero dal primo minuto, in quella che potrebbe essere la sua ultima grande notte con la maglia bianconera. Lui che ha vissuto in prima persona il 2006 e tutto l'umiliante periodo successivo. Lui che è il capitano, la storia, e per qualche settimana ancora, il presente della Juventus. Lui, Pinturicchio. Basterebbe questo per spiegare Juventus-Milan di questa sera. Non una semplice semifinale di Coppa Italia. Una partita speciale.

sabato 10 marzo 2012

L'ultima lezione di Del Piero

Estratto da un’intervista ad Alessandro Del Piero, pubblicata sulla Gazzetta dello Sport del 29 ottobre 2010:
La maglia numero 10 della Juve deve essere indossata, non ritirata. È bello che tutti i bambini possano sognare di giocare con una maglia che in 113 anni è stata vestita da grandissimi campioni. La Juve c'è stata, c'è e ci sarà a prescindere da Alessandro Del Piero.

In certi momenti è giusto continuare a crederci, ma in altri è meglio guardare in faccia la realtà. Penso che oggi sia giusto guardare le cose come stanno, senza girarci tanto attorno. La storia tra Del Piero e la Juventus finirà tra poco più di due mesi. Nel calcio molte cose possono cambiare in tempi molto piccoli, quindi è bene avere poche certezze, ma arrivati a questo punto solo un clamoroso colpo di scena potrebbe portare a un prolungamento del contratto. Il primo vero momento di difficoltà della stagione è arrivato, la Juventus non perde ma neanche vince. Pareggia. Cinque pareggi e due vittorie nel girone di ritorno. 11 punti in 7 partite. Non una crisi, ma un calo sì. Molto naturale, peraltro. Ero convinto che questa flessione sarebbe arrivata. Ed ero convinto che alle prime difficoltà la Juventus sarebbe tornata ad affidarsi al suo capitano. Evidentemente mi sbagliavo. Conte non lo vedeva prima e non lo vede neanche ora. Cambiano i momenti ma non cambiano le scelte di Conte.
Si sente spesso dire che Del Piero lascerà la Juventus a fine stagione, ma sarebbe più corretto dire che la Juventus lascerà Del Piero. Per certi versi questo momento mi ricorda quello del post infortunio del 1998. Tutti che aspettavano il ritorno di Pinturicchio e lui che si fece attendere a lungo, tanto da meritarsi il nuovo soprannome dell'Avvocato, Godot. Anche oggi molti tifosi fedeli lo aspettano, o meglio, aspettano che Conte lo faccia alzare da quella maledetta panchina e lo butti in campo. Magari per qualcosa in più dei dieci minuti finali. Ma stavolta l'attesa rischia di diventare inutile. L'unica valvola di sfogo che Conte sembra aver concesso a Del Piero è la Coppa Italia.
Le continue esclusioni non gli hanno comunque fatto perdere la testa, come è successo e succede spesso a molti altri campioni. Sta vivendo la stagione ai margini del campo, ma non ai margini della squadra. Il modo in cui ha rispettato la panchina è l'insegnamento più bello che lascia nella sua ultima stagione bianconera. La situazione evidentemente gli pesa moltissimo, perché è dal 2006 che il suo chiodo fisso è quello di tornare a vincere con la Juventus. E adesso che finalmente la squadra è tornata competitiva deve stare a guardare. Fino a pochi mesi fa dicevano che Del Piero era ormai un peso per la Juventus perché non accettava la panchina. E' troppo ingombrante - dicevano. Ora si dovranno rimangiare anche quest'ultima cattiveria. Se ne va da grande signore, lasciando dietro di sé un vuoto enorme e un'ultima grande lezione.

sabato 25 febbraio 2012

L'era Moratti, 17 anni senza idee

Napoli-Inter 2-0 -- Coppa Italia, 25 gennaio 2012
Lecce-Inter 1-0 -- Serie A, 29 gennaio 2012
Inter-Palermo 4-4 -- Serie A, 1 febbraio 2012
Roma-Inter 4-0 -- Serie A, 5 febbraio 2012
Inter-Novara 0-1 -- Serie A, 12 febbraio 2012
Inter-Bologna 0-3 -- Serie A, 17 febbraio 2012
Marsiglia-Inter 1-0 -- Champions League, 22 febbraio 2012
Napoli-Inter ?-? -- Serie A, 26 febbraio 2012

Lo scorso agosto scrissi un pezzo in cui provavo a spiegare perché l'Inter avrebbe incontrato molte difficoltà in questa stagione e, più in generale, nel futuro prossimo (questo il pezzo: Inter, la fine dei vincenti per prescrizione). A distanza di poco più di sei mesi, i risultati stanno dando ragione a ciò che scrissi. Ma ero stato davvero facile profeta, perché le debolezze della società nerazzurra erano e sono troppo macroscopiche per passare inosservate e per non lasciare conseguenze in termini di risultati sul campo. L'improvviso addio di Leonardo, l'incoerenza nella scelta dell'allenatore, la mancanza di un progetto tecnico, i litigi tra il dt Marco Branca e Massimo Moratti erano solo alcuni dei motivi che mi avevano fatto scrivere "si sta aprendo un periodo molto difficile per la creatura di Moratti".
E a questo punto la partita col Napoli di domenica prossima sarà probabilmente decisiva per il futuro di Claudio Ranieri. Moratti è confuso e non sa bene che fare, ma se l'Inter dovesse uscire con un risultato negativo dal San Paolo, far saltare l'allenatore sarebbe la scelta più semplice per lui. Più semplice, ma anche più sbagliata e controproducente. E' fin troppo chiaro che il problema di questa squadra non è l'allenatore, e personalmente penso che l'unico errore commesso da Ranieri sia stato quello di accettare la panchina dell'Inter. Un allenatore della sua esperienza avrebbe dovuto capire che non c'erano le condizioni per riportare in alto la squadra. O nei prossimi giorni o a giugno, Moratti cambierà dunque l'ennesimo allenatore della sua personalissima collezione. Per l'esattezza, il prossimo sarà il 18° tecnico in 17 anni di gestione Moratti. Numeri fuori da ogni logica, perché stiamo parlando di una grande squadra - almeno dal punto di vista economico - che avrebbe bisogno di un progetto tecnico e di una società forte in grado di proteggerlo con convinzione. Mi piace molto il modo in cui la Roma sta difendendo Luis Enrique, nonostante i risultati fino ad oggi non siano esaltanti. La società giallorossa ha un progetto molto chiaro - condivisibile o meno questo è un altro discorso - e sta cercando con forza di portarlo avanti. All'Inter tutto questo manca clamorosamente. Mourinho era stato una piacevole illusione per l'ambiente nerazzurro, perché aveva fatto pensare a molti che l'Inter fosse definitivamente uscita da quella spirale negativa che aveva caratterizzato i primi undici anni dell'era Moratti. Ma quello che molti non avevano capito è che Mourinho non è un semplice uomo di campo. E' un manager, un dirigente, un uomo che gestisce le relazioni con la stampa e poi anche un allenatore. Lui stesso ha dichiarato: «Quando sono arrivato all'Inter non avevo neanche un ufficio. Quando me ne andrò chi mi sostituirà ce l'avrà». Mourinho ha coperto da solo il grande vuoto societario che aveva alle spalle. Ma andato via lui, quel vuoto si è riaperto.
Alcuni sostengono che il problema dell'Inter è che Moratti non investe più. Io non penso sia questo il problema. Moratti nella sua gestione ha speso moltissimo, anche troppo. E soprattutto ha speso male. Dal 1995 al 2005 Moratti ha speso mille miliardi di vecchie lire senza vincere un solo scudetto. Negli stessi anni Moggi costruiva e ricostruiva squadre vincenti senza chiedere una lira alla famiglia Agnelli. Nel 2001 Moggi vendette il quasi 30enne Zidane al Real Madrid alla cifra di 160 miliardi di lire, e con quei soldi rifondò la squadra andando a prendere Buffon, Thuram e Nedved. Quindi non penso sia un problema di soldi, casomai di come vengono investiti quei soldi. Si può vincere senza grandi risorse ma non si può vincere senza idee.

giovedì 16 febbraio 2012

Furia di Signora: «Adesso basta»


L'antijuventinità è qualcosa che da sempre fa parte della cultura italiana, e il 2006 è solo la punta di iceberg di un sentimento popolare molto profondo. Per questo sono convinto che al prossimo episodio arbitrale favorevole alla Juventus, nonostante tutto, ricominceranno i soliti discorsi sulla società di ladri, che compra le partite, che falsa i campionati, ecc. ecc. C'è un fronte comune e compatto formato da buona parte di stampa e televisioni che si nutre e si nutrirà sempre di questi discorsi, alimentando l'opinione pubblica di luoghi comuni e stereotipi. In fondo questo è il destino della società più amata, più odiata e sicuramente più vincente d'Italia. Quando cresce l'anijuventinità, la Juventus sta tornando grande. E oggi, evidentemente, dopo sei lunghi anni, la Juve fa di nuovo paura.
Il problema è quando l'aria che tira fuori dal campo da calcio si trasferisce dentro al campo da calcio. Il problema è quando il settore arbitrale respira certi discorsi e li traduce in arbitraggi di un certo tipo. Non credo ci sia nessuna cospirazione arbitrale contro la Juventus, così come nel 2006 non c'era nessuna cupola pro Juventus. Penso però che se in 23 partite la Juventus ha ricevuto un solo rigore a favore, un motivo ci deve essere. Per una squadra che ha un possesso palla superiore al 70% e che attacca per più di 70 minuti nell'area avversaria, un rigore è veramente una miseria. Il Milan, tanto per dire, ne ha avuti sei e il Novara ultimo in classifica tre. Come ha detto Conte ieri sera nella conferenza stampa post Parma-Juventus, rivolgendosi direttamente al designatore arbitrale: «Signor Braschi, che ci trattino come tutti gli altri per favore, perché la sensazione è che se si fischia contro la Juventus comunque non si sbaglia, se si fischia a favore uno si fa il segno della croce...». Due scudetti, la serie b, una società e una squadra distrutte. Ci abbiamo messo cinque anni per ricostruire qualcosa che assomiglia al passato. Adesso basta.

P.S. Ringrazio il mio amico Piergiorgio per avermi indicato il link del video della conferenza stampa di Conte e per avermi fatto riflettere su calciopoli qualche anno fa.

martedì 14 febbraio 2012

Roma è fuori dai Giochi


Dunque il governo non appoggerà la candidatura di Roma ai Giochi Olimpici del 2020. Alla fine ha deciso il rigore di Monti e dei tecnici. A niente sono serviti i facili entusiasmi sventolati dal Coni e dal Comune di Roma nei giorni scorsi, e a niente sono valse le firme di atleti e artisti famosi a sostegno della candidatura di Roma. Da Totti alla Pellegrini, da Tornatore a Fiorello, in molti si sono spesi per sostenere la candidature della capitale del mondo ai Giochi Olimpici 2020. Tutto inutile. Per fortuna, viene da dire.
E non devo essere il solo a pensare che la non candidatura di Roma ai Giochi è in fondo una grande liberazione, un peso in meno per il Paese, se - come riportano i sondaggi - la stragrande maggioranza delle persone si trova favorevole al no del premier. Addirittura clamoroso l'esito del sondaggio di Sky Tg24 di questa sera (senza valore scientifico, è bene sottolinearlo): alla domanda "Il governo non appoggia la candidatura di Roma per i Giochi del 2020. Sei d'accordo?" il 90% ha risposto con un deciso Sì. Segno evidente dell'aria che tira nel Paese. La gente non ne vuole sapere di Olimpiadi da organizzare. Un evento mastodontico che, per quanto affascinante e spettacolare, è pur sempre da finanziare con soldi pubblici. Nei giorni passati il presidente del Coni Gianni Petrucci si era lungamente speso nel rassicurare il governo e l'opinione pubblica, parlando di manifestazione «a costo zero e solo positiva per l'Italia». Ma in pochi gli hanno creduto. Anche perché i precedenti non sono esattamente confortanti. Abbiamo organizzato Italia '90 e sono rimaste cattedrali nel deserto e miliardi buttati al vento o ingoiati dai ladri. Abbiamo organizzato i Giochi invernali di Torino 2006, che hanno avuto un effetto positivo sulla città, ma hanno anche portato ad enormi buchi di bilancio, senza contare i numerosi impianti sportivi costruiti e mai più utilizzati dopo la manifestazione. Abbiamo organizzato i Mondiali di nuoto a Roma, e si sono mossi i giudici. Anche per questo la gente non si fida più, a maggior ragione in un momento di grande incertezza e grandissimi sacrifici come quello attuale.
Monti da parte sua ha spiegato che il Paese non è ancora pronto a candidarsi alle Olimpiade del 2020 e ha invitato a non leggere la decisione come un messaggio di pessimismo. «I mercati avrebbero pensato che l'Italia dopo 2-3 mesi di rigore si lanciasse in atti imprudenti, come una garanzia ad importo sostanzialmente illimitato». Come dire: prima di rivivere il mito e le emozioni di Roma 1960, c'è da mettere al sicuro l'Italia. Ha vinto il rigore e ha vinto la logica.

venerdì 3 febbraio 2012

Del Piero-Juve, meno cento?


13 maggio 2012, ultima giornata di campionato.
20 maggio 2012, finale di Coppa Italia.

E così oggi mancano cento giorni all'ultima partita di campionato. Questo significa che mancano cento giorni alla partita d'addio di Del Piero. Volendo essere ottimisti, possiamo spostare questo appuntamento di sette giorni, al 20 maggio, data della finale di Coppa Italia, competizione per la quale la Juventus è ancora in corsa. Ma la sostanza cambierebbe di poco. Cento o centosette giorni che siano, il lunghissimo binomio Del Piero-Juventus sta vivendo gli ultimi momenti. A meno che...

A meno che il presidente Agnelli non decida di tornare sui propri passi, compiendo un grande gesto di umiltà e intelligenza. Come già ho scritto, credo che Agnelli abbia commesso un errore lo scorso ottobre, congedando Del Piero con sette mesi di anticipo dalla scadenza del contratto. Un errore di stile e di sostanza, ma non un errore irrimediabile. Tutto dipenderà dalla voglia che il giovane presidente della Juventus avrà di tornare sulle proprie decisioni e di cambiare quel futuro che per il momento sembra avere già scritto. Analizzando lucidamente la situazione, è difficile trovare una sola controindicazione ad un eventuale rinnovo del capitano bianconero fino al giugno 2013. Mi spiego.
Il giocatore ha un ingaggio di un milione e non rappresenta dunque un peso economico per la società. Lo era sicuramente Amauri, fuori rosa e fuori dal progetto ma con uno stipendio netto di quattro milioni, ma non lo è né lo sarà mai Del Piero. Dal punto di vista economico, quindi, nessuna controindicazione. Dal punto di vista tecnico e dal punto di vista fisico, il giocatore ha dimostrato di esserci ancora e di poter dare una mano importante nei momenti di bisogno. Ma soprattutto la grande prova che Del Piero sta dando in questa stagione è quella di essere un vero uomo squadra, un capitano impeccabile nonostante lo scarsissimo minutaggio. E proprio quest'ultimo aspetto è stato sottolineato più volte anche dallo stesso Conte. Considerando poi che la Juventus tornerà probabilmente a disputare la Champions League nella prossima stagione, l'esperienza di Del Piero all'interno di un gruppo piuttosto giovane, e con poca pratica di partite a livello internazionale, potrebbe essere fondamentale anche il prossimo anno. Tutti buoni motivi per prolungare di un anno ancora.
Ad oggi possiamo dire che sono iniziati gli ultimi cento giorni di Del Piero alla Juventus, ma le cose potrebbero cambiare, nonostante le certezze che sembrano avere quasi tutti sull'addio di Pinturicchio a fine stagione. Se c'è una cosa che ho imparato è che nel calcio tutto può cambiare in un solo giorno. Figuriamoci in cento giorni. L'unica cosa certa è che la palla in mano ce l'ha Agnelli.

mercoledì 18 gennaio 2012

Del Piero non merita questo

2 novembre 2011. Parla Pavel Nedved: «Sinceramente non posso vedere un campione come Del Piero finire in panchina o in tribuna. Un campione deve finire in piedi giocando le partite».

Presto Antonio Conte dovrà prendere una decisione molto delicata. E' questione di pochi giorni, il tempo che Quagliarella recuperi definitivamente dall'infortunio allo zigomo rimediato nella prima partita dell'anno. A quel punto i cinque attaccanti saranno tutti a disposizione dell'allenatore leccese, che si troverà nella condizione - gradevole e sgradevole al tempo stesso - di dover mandare in tribuna prima di ogni partita uno tra Matri, Borriello, Vucinic, Quagliarella e Del Piero. Non è in realtà una prospettiva che preoccupi più di tanto Conte, se pensiamo che è stato lui stesso a volere fortemente l'arrivo di Borriello. Fatto sta che l'abbondanza nel reparto offensivo potrebbe portare ad un'esclusione clamorosa, quella di Alessandro Del Piero. Clamorosa perché se ormai alcuni si stanno abituando a vedere Del Piero in panchina, nessuno è ancora abituato a vederlo in tribuna per scelta tecnica. Una possibilità che spero non si realizzi, perché si parla di un giocatore che è la bandiera della Juventus, e - per chi come me lo crede ancora - di un campione. Una possibilità che, come tale, potrebbe dunque non concrettizzarsi. Per esempio, escludendo Krasic ed Elia - giocatori sui quali la Juventus non sembra più puntare (sul primo in modo evidente, sul secondo a dire il vero non ho ben capito quale sia la posizione del club) - si libererebbe un posto in panchina che consentirebbe a Conte di convocare tutti e cinque i suoi attaccanti, senza doverne mandare in tribuna nessuno.
La stagione di Del Piero è stata molto strana fino ad oggi. Titolare e in campo per 70 minuti nella prima partita vittoriosa della stagione contro il Parma, nel debutto allo Juventus Stadium. Da quel momento tantissima panchina, qualche spezzone di partita e l'impiego per 5 minuti contro il Genoa e per 3 (!) contro il Napoli. In mezzo una dichiarazione inutile e fuori luogo di Agnelli, che di fatto gli ha sbattuto la porta in faccia. Ora, come se non bastasse, lo spettro della tribuna.
Gli ottimi risultati della Juventus e l'intelligenza di Del Piero hanno impedito che scoppiasse un caso. Però, da qualsiasi punto la si voglia vedere, la situazione è stata gestita non male, di più dalla società bianconera. Il punto non è la mancanza di riconoscenza - la riconoscenza nel calcio, e probabilmente nella vita, non esiste - il punto è che i vertici della Juventus stanno mancando di rispetto alla bandiera Del Piero, e ancor prima, alla persona Del Piero. La società non può e non deve trattarlo così, a maggior ragione ora che la sua strada e quella della Juventus stanno per dividersi dopo 19 anni. L'addio di Del Piero alla Juventus sarà comunque amaro, perché chi ama il calcio vorrebbe sempre vederlo correre sul campo da gioco con la maglia bianconera. Ma in questo modo rischia di diventare amarissimo, e non per colpa sua. Citando Nedved: «Un campione dovrebbe finire in piedi giocando le partite».

martedì 10 gennaio 2012

Henry e Scholes, il ritorno delle leggende


E sono 227 con la maglia dell'Arsenal per Thierry Henry!

E' incredibile quello che è successo negli ultimi giorni nel calcio britannico. Incredibile ed emozionante. Sì perché, pazzesco anche a dirsi, Thierry Henry e Paul Scholes sono tornati a vestire le maglie che li hanno consacrati. Henry è tornato all'Arsenal dopo cinque anni passati a giocare lontano da Londra, e Scholes è tornato a giocare per il Manchester United dopo aver annunciato il ritiro lo scorso giugno. Pare che Ferguson lo abbia chiamato al telefono dicendogli: «La verità è che abbiamo ancora bisogno di te, che fai torni a darci una mano?». Detto, fatto. Scholes è tornato e Ferguson lo ha già schierato nell'ultima mezzora della partita vittoriosa contro gli acerrimi rivali del Manchester City, valida per l'accesso al quinto turno di Fa Cup. E se il ritorno di Scholes è stato memorabile, quello di Henry è leggendario. A 1768 giorni dalla sua ultima apparizione con la tenuta dei Gunners, Titì si è ripresentato all'Emirates Stadium. Al suo ingresso un boato da brividi. E al suo gol, il numero 227 con la maglia dell'Arsenal - segnato dopo dieci minuti dal suo ingresso in campo - tifosi in delirio. Sì perché questi non sono solo grandi giocatori, sono bandiere purissime - come ne rimangono ormai poche nel mondo del calcio - che hanno lasciato il segno nel cuore della gente. Dicono tutto le parole di Henry: «Tornare qui è qualcosa di irreale a essere onesti, ma per me l'Arsenal è una questione di cuore. Non sono qui per fare l'eroe o per dimostrare chissà cosa, sono qui per dare una mano viste le assenze di Gervinho e Chamakh. Farò tanta panchina, la squadra sta facendo bene, ma sono pronto a dare una mano».
Così invece Ferguson sul ritorno di Scholes: «E' fantastico che Paul abbia preso questa decisione. E' sempre triste vedere grandi giocatori concludere la carriera, specialmente quando è così presto. Ma lui si è sempre tenuto in forma e ho sempre pensato che potesse fare un'altra stagione». Scholes ha 37 anni, ma Ferguson sa guardare oltre l'età di un giocatore e sa quanto sia importante avere in rosa giocatori con la sua esperienza, la sua classe e il suo attaccamento alla maglia. A proposito: qualcuno a Torino dovrebbe prendere nota.
Signori, non importa per quanto giocheranno ancora. Quello che conta è che sono tornate due autentiche leggende.

venerdì 6 gennaio 2012

L'esempio di Giaccherini e la prima Juve di Lippi

Lo scorso 8 dicembre, in occasione di Juventus-Bologna 2-1 - partita degli ottavi di Coppa Italia - Conte esultò in modo particolare dopo il bel gol di Giaccherini al 90' minuto. Fece più o meno il gesto che Toni fa sempre quando realizza una rete, si portò la mano all'orecchio come per dire: «Avete visto cosa sa fare questo Giaccherini?», gesto e pensiero ovviamente rivolto a tutti coloro che avevano storto il naso al momento del suo acquisto, questa estate. Conte ha fortemente voluto questo giocatore, e lo protegge, lo esalta con un'attenzione particolare. Queste le parole di Conte, sempre dopo la partita di Coppa Italia col Bologna: «Se si fosse chiamato Giaccherinho staremmo tutti a parlare di un fenomeno, invece si chiama Giaccherini e viene dai campi di provincia. Giaccherini è il nostro esempio».

Tralasciando la prima parte del suo discorso - Giaccherini non è un fenomeno e Conte, aldilà dei discorsi, lo sa bene - sono molto interessanti le ultime parole: «Giaccherini è il nostro esempio».
Conte ha rivoluzionato la Juve non tanto nel gioco quanto nella testa. O meglio: il gioco è una conseguenza di un nuovo atteggiamento mentale che Conte è riuscito a (ri)portare in un ambiente che era completamente svuotato dalle ultime due disastrose stagioni. Conte vuole prima di tutto gente che in campo dia tutto, lo ha detto chiaramente fin dal primo giorno di ritiro. Chi è alla Juve, chi è della Juve deve onorare la maglia. E la maglia si onora, prima ancora che con le belle giocate e i gol, con il sudore di cui viene riempita ogni volta che viene vestita. Ecco perché Conte definisce Giaccherini il nostro esempio. Oggi alla Juve ci sono almeno 9-10 giocatori superiori per qualità a Giaccherini, ma Giaccherini è l'esempio perché, per citare ancora Conte: «Mangia l'erba». Tradotto: in campo dà tutto. E questa, per Conte, è la prima delle cose che servono a una squadra per tornare competitiva.
Conte probabilmente ha nella testa come modello la prima Juve di Lippi, formata da grandi campioni come Del Piero, Vialli e Sousa, ma anche da gente come Di Livio, Torricelli, Pessotto e Conte stesso che faceva della corsa e della presenza agonistica la principale caratteristica. Didier Deschamps, grande interprete di quella Juventus, ha dichiarato: «La voglia di lottare che aveva la nostra squadra era qualcosa di diverso e inimitabile. E arrivava immediatamente dopo aver vestito quella maglia». Conte sta cercando di ricostruire proprio quello spirito, e giocatori come Giaccherini lo aiutano molto in questa opera di ricostruzione. Basti dire che in questa prima parte di stagione Conte lo ha quasi sempre preferito al più talentuoso, ma anche più spaesato (almeno per il momento), Elia, acquistato quest'estate per 9 milioni di euro dall'Amburgo (di contro ai 3 sborsati al Cesena per la comproprietà di Giaccherini). Gente come Giaccherini - per fare altri nomi cito anche Pepe e Vidal - incarna quello spirito guerriero che per Conte è fondamentale ricostruire. Quando Conte disse che Giaccherini è il nostro esempio sapeva bene quello che diceva.