venerdì 8 agosto 2014

Una ipotesi sul futuro di Del Piero


Non ho alcuna fonte speciale né informazione segreta, quindi prendete quanto sto per dire soltanto come una mia idea, niente più che una semplice ipotesi.

Pochi giorni fa Del Piero, parlando del suo futuro, ha ribadito di voler giocare ancora e ha accennato per la prima volta di seguire in particolare "due possibilità", senza però rivelarle: "Non posso dirvi altro per ora". Dopo l'addio al Sydney, nelle ultime settimane la stampa lo ha accostato davvero a moltissime squadre di campionati e continenti diversi ed è molto difficile capire cosa ci sia di vero e cosa no.
Ad ogni modo, personalmente mi sono convinto che a Del Piero piacerebbe giocare negli USA, sia per le potenzialità del campionato, che potrebbe contribuire a fare crescere come ha fatto in Australia, sia per il contesto, che credo sia ideale per tutta la sua famiglia. Ma attenzione ai tempi: la MLS, il campionato di calcio statunitense e canadese, inizia a marzo e finisce a dicembre. Del Piero quindi sarebbe costretto a entrare nelle ultime fasi della stagione con pochissimo tempo per inserirsi: non l'ideale.
Da giorni intanto continuano a circolare rumors che lo vorrebbero tra i top player nel mirino della Indian Super League. Voci confermate indirettamente anche dal fratello e agente Stefano: "Ci sono richieste da diversi club, non solo dell'India..." . In India sta nascendo un nuovo campionato, con 8 squadre e una nuova formula. Sono stati ingaggiati giocatori come Trezeguet, Ljungberg, Pires, Capdevila e Luis Garcia. L'idea è quella di far crescere il calcio in un paese in cui il cricket è di gran lunga lo sport più popolare. La durata della Indian Super League sarebbe assolutamente compatibile per poi iniziare a marzo la stagione nella MLS: il campionato indiano dura infatti solo tre mesi, da ottobre e dicembre.
Benché l'India offra un ambiente molto diverso da Sydney, è comunque un paese anglofono e rappresenta un'opportunità stimolante di aiutare la crescita del football in un paese senza grandi tradizioni calcistiche. In più, come detto, sarebbe un'esperienza molto breve, un buon allenamento in vista della stagione di MLS 2015, che sarebbe presumibilmente l'ultimo campionato di Del Piero.
Questa è niente di più di una ipotesi, in attesa dell'annuncio ufficiale che arriverà dal diretto interessato dopo domenica 10 agosto (quando Del Piero sarà impegnato a Sydney in un'amichevole contro la Juve), forse già nella giornata di lunedì secondo quanto riporta Sky News Australia.

venerdì 24 maggio 2013

Seedorf e la Curva Sud: genesi di un rapporto difficile

Quando ancora vestiva la maglia rossonera la Curva Sud lo fischiava. Ora che potrebbe allenare il Milan la Curva Sud lo boccia. Cosa c'è dietro l'ostilità degli ultrà verso il fuoriclasse olandese?


Ci sono fatti che non si spiegano, o almeno certe spiegazioni non li chiariscono. Come quella che per anni ho sentito ripetere da illustri opinionisti e giornalisti sportivi, secondo cui Clarence Seedorf veniva fischiato dalla Curva Sud perché era un giocatore troppo lezioso, di quelli che «fanno troppi giochetti e non si sporcano i pantaloncini, che ai tifosi non piacciono». 
Per un amante del calcio i fischi a Seedorf sono in effetti un piccolo mistero. Soprattutto perché arrivavano dai suoi stessi tifosi, quelli a cui l’olandese aveva fatto vincere in un decennio un paio di campionati, un paio di Champions, una Coppa del Mondo per club e qualche altro trofeo, per non farsi mancare niente. Seedorf è stato un pilastro del Milan di Ancelotti, uno che nelle partite importanti aveva sempre l’asso nella manica, uno capace di vincere quattro Champions con tre maglie diverse e di diventare per dieci anni una colonna portante di una squadra vincente. Non un simbolo dei tifosi, visto che la Sud di San Siro lo ha sempre ripagato con bordate di fischi.

Un’ostilità verso l’olandese che oggi torna forte in una forma nuova: non più i fischi ma un comunicato stampa firmato Curva Sud Milano, nel quale si esprime forte contrarietà all’ipotesi che Seedorf possa diventare il prossimo allenatore del Milan: «…dobbiamo ripartire quantomeno dando la squadra in mano a un allenatore affermato e non certo a persone come Seedorf (che non ce ne voglia) o altri che hanno zero esperienza in panchina e arriveranno a prendere in mano una squadra di giovani a un mese dal primo impegno ufficiale e di difficilissima gestione quale il preliminare di Champions League».
Non consideravo convincenti le spiegazioni degli opinionisti secondo cui Seedorf era troppo lezioso per i tifosi, e non considero convincenti le spiegazioni dei tifosi stessi che giustificano la loro bocciatura al “tecnico” Seedorf per la mancanza di esperienza in panchina dell’olandese. Una presa di posizione pubblica così decisa e marcata da parte della Curva Sud ha chiaramente motivazioni più radicate, e quell’espressione “persone come Seedorf” sembra alludere non a caso a qualcosa di diverso, di più profondo, che tocca la persona appunto, e non il calciatore passato o l’allenatore futuro.

Qualcosa che risale probabilmente all’11 novembre 2007, giorno in cui Gabriele Sandri, ultrà della Lazio, fu ucciso in un’area di servizio da uno sparo di un agente di polizia. Seedorf fu l’unico giocatore che si rifiutò di mettere la fascia nera a lutto. Non perché non ritenesse quella morte grave e assurda ma perché non capiva, non sapeva bene che cosa era accaduto. Nel dopo partita spiegò così la sua scelta: «Non sapevo di chi si trattasse. Ho deciso di non associarmi a un fantasma. Anche pensando a situazioni precedenti, come per il fratello di Kaladze, quando Federazione e Lega non hanno fatto niente. Non conoscevo la persona e i fatti. Era giusto spostare le partite di 10 minuti ma dal momento che non c’era chiarezza sulla persona e sugli avvenimenti ho preferito non indossare la fascia».
Seedorf voleva aspettare per capire cosa fosse realmente successo, e così fece. Ma questo ha significato per gli ultrà della Curva Sud un affronto, una presa di posizione forte, un modo per non schierarsi dalla loro parte nell’infinita lotta contro la polizia (l’ultrà Sandri ucciso dall’agente di polizia Spaccarotella è il simbolo tragico della ventennale lotta tra ultrà e polizia).
Una scelta logica quella di Seedorf, ma anche molto coraggiosa. Una scelta che ha scontato con i fischi quando giocava e che ora può fargli perdere la panchina del Milan. Sempre che Berlusconi non porti avanti la sua decisione fino in fondo, senza cedere alle pressioni di ultrà che sono mossi da logiche indipendenti, difficili da interpretare e da capire dall’esterno, sicuramente molto lontane dallo sport.

domenica 31 marzo 2013

Inter-Juve, un girone dopo


Un girone dopo tornano in mente le parole di Stramaccioni nella pancia dello Juventus Stadium. L'Inter aveva appena infranto (meritando) l'imbattibilità della Juventus che durava da 49 partite, e Stramaccioni si lanciò in dichiarazioni inutilmente polemiche per una battuta non gradita che Marotta aveva rilasciato nel prepartita. Polemiche futili e inutili, ma Strama si sentiva forte di un risultato che nessuno, forse neanche lui, si aspettava. Molti, io stesso, in un primo momento si sono lasciati illudere da questo ragazzo che Moratti un anno fa decise di promuovere dalla primavera alla prima squadra. Un salto enorme che Stramaccioni sembrava avere assorbito con una tale naturalezza da lasciar pensare in un destino segnato. Si presentò sicuro di sé, con umiltà, ottenendo la fiducia da parte di giocatori che avevano vinto tutto e che si trovavano davanti un perfetto sconosciuto. Ma i giudizi frettolosi sono quasi sempre sbagliati, e l'umiltà di Strama si è rivelata superficiale e a targhe alterne: se l'Inter vince diventa arroganza. La sua consistenza come allenatore si è piano piano sgretolata.
Perché aldilà dei punti (ventuno di differenza) tra Inter e Juventus c'è una differenza sostanziale: il gioco. Si sente spesso dire che Conte è un grande motivatore, vero. Ma spesso ci si dimentica di sottolineare che Conte è soprattutto uno straordinario organizzatore di gioco. La Juve è una squadra europea, e non è un caso che sia l'unica superstite italiana in Champions League. Lo è per mentalità sul campo, perché vuole sempre imporre il proprio gioco su tutti i campi. E lo è a livello societario, perché riesce a programmare il futuro in modo più lungimirante di ogni altra grande squadra italiana: i risultati degli ultimi due anni sono una conseguenza anche del progetto del nuovo stadio iniziato da Giraudo e Moggi, e realizzato poi dopo il 2006. Programmazione: un'altra parole chiave sconosciuta all'Inter, almeno da quando nel 1995 Moratti è presidente. Diciotto allenatori in diciotto anni, e una marea di buoni giocatori, qualche fuoriclasse, comprati senza un progetto che si sono persi. Quasi due anni fa, dopo l'addio di Leonardo, scrissi che per l'Inter si stava aprendo un periodo molto difficile (clicca qui). Ero stato facile profeta, perché si stava chiudendo un ciclo, quello dei senatori dello storico triplete, e mancava una società capace di ricostruire un futuro vincente. Quella società manca ancora, e temo mancherà sempre, finché il suo presidente sarà Massimo Moratti.
Un girone dopo tornano in mente le parole di Strama dopo il colpo grosso nella tana del nemico. E suonano beffarde.

domenica 17 marzo 2013

L'Italia nel pallone


Dietro a ogni crisi ci sono rischi e opportunità. Rischi di ridimensionamento, o nel peggiore dei casi di fallimento. Opportunità di riflessione sulle cause e di ripartenza su basi più solide. La crisi non va demonizzata o temuta come il peggiore dei mali perché tutti i sistemi - economici, sociali, politici - e persino tutti gli individui prima o poi si trovano a farci i conti. Non è qualcosa di astratto e raro, la crisi è parte dell'esistenza e non chiede paura. Pretende rispetto.
La difficile situazione che attraversa oggi il calcio italiano non deve stupirci, perché era largamente preannunciata e perché arriva in un Paese che da vent'anni fatica tremendamente a rimanere competitivo. Il calcio è né più né meno che una delle molte industrie impantanate di questo Paese. Un'industria in cui chi molti anni fa avrebbe dovuto aprire onestamente gli occhi alle difficoltà e cercare di arginarle ha continuato a ripetere che andava tutto bene. Un'industria in cui chi avrebbe dovuto realizzare le riforme necessarie per riattivare un circolo virtuoso ha preferito nascondersi dietro a una Champions League conquistata da un portoghese e da una flotta di brasiliani e argentini. Sventolando quel trofeo come un successo made in Italy.
Le cause della profonda crisi del calcio italiano sono molte e non solo strutturali, ma anche culturali. Sono soprattutto ataviche se accostate al panorama calcistico internazionale con cui da sempre ci confrontiamo. Il nostro movimento non ha saputo guardare a un futuro diverso da quello del giorno dopo e queste sono le conseguenze: un gap di almeno dieci anni dai campionati migliori - Inghilterra, Germania, Spagna.
Le cause sono strutturali, perché l'Italia è l'unico paese dove gli stadi non sono di proprietà dei club, ma sono ancora gestiti dai Comuni. Di conseguenza gli impianti sono vecchi, inadeguati e fatiscenti, e le società perdono soldi - sia perché gli impianti non attirano spettatori, sia perché non gestendoli direttamente non possono sfruttarne tutte le potenzialità economiche connesse (ristoranti, negozi, centri commerciali, altre attività commerciali legate alla partita di calcio). Una ricerca datata ormai al 2004 sulla situazione degli stadi italiani fotografava con questi numeri la condizione degli impianti di A e B: il 33% sono stati costruiti tra il 1920 e il 1937, il 27% è stato realizzato tra il 1950 e il 1970 e il restante 33% tra il 1972 e il 1990, anno dei Mondiali di calcio italiani. Sono passati nove anni da quella ricerca ma le cose non sono affatto cambiate, fatta eccezione dello Juventus Stadium che nel nostro paese è stato accolto come un impianto rivoluzionario, ma che negli altri paesi è la normalità. In Premier League 20 club su 20 sono proprietari dello stadio in cui giocano e nella Liga spagnola 7 su 20. Il calcio tedesco, da parte sua, ha saputo sfruttare i Mondiali del 2006 come una grande opportunità per allinearsi agli standard più elevati in materia di impianti. Il calcio italiano invece non ha saputo evolversi coi tempi, voltare pagina e guardare al futuro. E così si è creato un gap dai paesi calcisticamente migliori, un divario che aumenta ogni giorno di più. Puntualmente tra gennaio e febbraio vengono rinviate molte partite per neve (pensate allo scorso anno) - con conseguente alterazione dei calendari, della regolarità del torneo e infinite polemiche - e la questione stadi torna momentaneamente in agenda. Poi il maltempo passa, e del problema non parla più nessuno. Ma da un brutto teatro non potrà mai uscire un grande spettacolo. Il cuore del calcio sono i tifosi, gli stessi tifosi che ora preferiscono sempre più il divano allo stadio. Serve una legge sugli stadi, è un'ovvietà e lo dicono tutti, da anni. E sono anni che nessuno fa niente, concretamente. Sempre in attesa di non si sa che cosa.
Ma le cause del ritardo non sono solo strutturali, sono anche culturali. E qui il discorso si fa più profondo e non riguarda solo il calcio. Riguarda la società e la politica stessa - se pensiamo che quasi tutte le curve degli stadi italiani sono dichiaratamente politicizzate, molto spesso su posizione estremiste. Gli stadi appaiono evidentemente come enormi casse di risonanze per pochi ma rumorosi fanatici estremisti - persone che con il calcio e lo sport in generale non hanno niente a che fare, ma che finiscono col compromettere molto spesso il clima di serenità che dovrebbe accompagnare la partita di calcio. Violenza, razzismo, ricatti alle stesse società di cui - così dicono - sono primi tifosi. E il calcio italiano sprofonda sempre più in basso. La depoliticizzazione delle curve è un passaggio fondamentale verso l'affermazione di una nuova cultura sportiva. Anche di questo si è parlato molto e fatto pochissimo. 
Dalle crisi si può uscire migliori, ma si può anche non uscire. Il calcio italiano è a un bivio.

sabato 2 febbraio 2013

Storia di un fallimento annunciato


Quando questa estate Sabatini e Baldini hanno annunciato il ritorno di Zeman sulla panchina giallorossa, tredici anni dopo l'ultima volta, un'ondata di euforia ha pervaso non solo l'ambiente romanista, tradizionalmente incline a sognare a occhi aperti, ma l'intero mondo del giornalismo sportivo italiano. Fiumi d'inchiostro sono stati versati per celebrare il grande ritorno del Maestro, l'allenatore diventato simbolo di giustizia e onestà nel 1998 dopo avere pubblicamente accusato la Juventus, e in particolare i suoi giocatori Vialli e Del Piero, di aver fatto uso di sostanze proibite per migliorare le prestazioni sportive. Accuse alle quali fece seguito un processo iniziato nel 2002 che vide la società bianconera accusata per frode sportiva mediante somministrazione sistematica di EPO e abuso di altri farmaci. Processo conclusosi definitivamente il 30 marzo 2007 con la sentenza della Corte di Cassazione, che confermò l'assoluzione, pronunciata già in Appello, degli imputati Riccardo Agricola e Antonio Giraudo dalle accuse legate al doping. Una luna di miele, quella tra Zeman e la stampa sportiva, che è la logica e diretta conseguenza di una comune e ampia cultura anti-juventina che storicamente vive nel nostro Paese, in cui d'altronde ogni forma di eccellenza fatica a essere accettata e a maggior ragione riconosciuta.
Questa estate Sabatini e Baldini hanno pensato bene di affidare la ricostruzione della Roma a Zeman, sperando magari di vedere realizzato quel sogno di calcio utopico che va sotto il nome di Zemanlandia: un'isola felice dove, si dice, il calcio è genuino, sano e spettacolare. L'isola che non c'è.
E adesso, dopo 23 giornate, la Roma si trova ottava, a nove punti dalla zona Champions, obiettivo dichiarato a inizio stagione. Con il secondo miglior attacco (dietro solo alla Juventus) e la seconda peggior difesa (prima solo del Pescara), e i soliti problemi che da sempre caratterizzano tutte le squadre di Zeman. Una fase offensiva spettacolare, e una fase difensiva disastrosa.
La stampa sportiva casca dalle nuvole, non sa come giustificare questo fallimento, si chiede cosa non sia andato. Perché. Ma basterebbe solo guardarsi indietro. Sono trent'anni che le squadre di Zeman hanno gli stessi pregi e gli stessi enormi difetti. In trent'anni Zeman ha vinto una serie C2 a Licata e due campionati di serie B, uno a Foggia e uno a Pescara, e ha incassato una lunga sfilza di esoneri. L'ultimo pochi minuti fa, con la Roma momentaneamente affidata ad Andreazzoli, membro dell'area tecnica. Ultimo passo di un fallimento annunciato.

sabato 19 gennaio 2013

Poker australiano


Mentre la Juve sta affannosamente cercando l'attaccante che non ha saputo trovare (se preferite trattenere) questa estate, dall'altra parte del mondo Del Piero segna 4 gol (più un assist). Dopo otto triplette con la Juve, il primo poker della sua carriera al Sydney. Gli anni passano, la qualità resta.
Finale: Sydney-Wellington Phoenix 7-1.

lunedì 31 dicembre 2012

Addio 2012. Noi c'eravamo.


Il 13 maggio 2012 è una di quelle date che i veri juventini non scorderanno mai. Un giorno straordinario - perché se vincere per la Juventus è sempre stata la normalità, quel giorno vincere è stata una liberazione, è stato togliersi di dosso un macigno che il popolo bianconero si portava dietro da troppo tempo. Un giorno fuori da ogni logica, fuori da ogni schema. Perché il 13 maggio la Juventus ha ritrovato se stessa. Perché dopo anni bui, gestioni insensate, scelte inappropriate la Juventus è tornata. Perché quel giorno è finito l'incubo iniziato nell'estate 2006 con la revoca di due scudetti, la serie B con penalizzazione, il terremoto societario, la squadra da rifondare. Perché i due scudetti non torneranno mai, ma le forze in campo, gli equilibri del calcio italiano quel giorno sono tornati esattamente come erano nel 2006: Juventus, Milan, il resto.
L'ultimo trofeo lo aveva alzato Del Piero il 14 maggio 2006, sul neutro di Bari. Era il ventinovesimo scudetto della storia bianconera. A chiudere il cerchio non poteva che essere lo stesso Del Piero, sei anni dopo, alla sua ultima partita di fronte ai propri tifosi (ultima per scelta del presidente, non sua).
Del Piero, il filo rosso di tutte le Juventus degli ultimi 19 anni: quelle di Trapattoni, Lippi, Ancelotti, Capello, Deschamps, Ranieri, Ferrara, Zaccheroni, Del Neri, Conte. L'uomo dei 289 gol, delle 705 presenze, dei 18 trofei alzati, tutti (gol, presenze, trofei) con una maglia, "One Love". Quel giorno prese un colpo al ginocchio pochi secondi dopo l'inizio della partita. Non stava bene, corricchiava, si toccava il ginocchio. Conte gli chiese se volesse il cambio. «No», risposta secca. Ero lì quel giorno e ricordo che al momento del contatto, con Del Piero steso a terra, lo stadio smise di respirare per qualche secondo. La gente era lì tutta per lui. Io ero lì per lui. Sapevo che avrebbe lasciato il segno, nonostante tutto, ancora una volta. Poco dopo sarebbero arrivati l'ultimo gol, l'ultima uscita di scena, la standing ovation infinita. Il trofeo alzato al cielo.
Doveva finire così. Non ho mai smesso di crederci. Io c'ero. Noi c'eravamo.