domenica 31 marzo 2013

Inter-Juve, un girone dopo


Un girone dopo tornano in mente le parole di Stramaccioni nella pancia dello Juventus Stadium. L'Inter aveva appena infranto (meritando) l'imbattibilità della Juventus che durava da 49 partite, e Stramaccioni si lanciò in dichiarazioni inutilmente polemiche per una battuta non gradita che Marotta aveva rilasciato nel prepartita. Polemiche futili e inutili, ma Strama si sentiva forte di un risultato che nessuno, forse neanche lui, si aspettava. Molti, io stesso, in un primo momento si sono lasciati illudere da questo ragazzo che Moratti un anno fa decise di promuovere dalla primavera alla prima squadra. Un salto enorme che Stramaccioni sembrava avere assorbito con una tale naturalezza da lasciar pensare in un destino segnato. Si presentò sicuro di sé, con umiltà, ottenendo la fiducia da parte di giocatori che avevano vinto tutto e che si trovavano davanti un perfetto sconosciuto. Ma i giudizi frettolosi sono quasi sempre sbagliati, e l'umiltà di Strama si è rivelata superficiale e a targhe alterne: se l'Inter vince diventa arroganza. La sua consistenza come allenatore si è piano piano sgretolata.
Perché aldilà dei punti (ventuno di differenza) tra Inter e Juventus c'è una differenza sostanziale: il gioco. Si sente spesso dire che Conte è un grande motivatore, vero. Ma spesso ci si dimentica di sottolineare che Conte è soprattutto uno straordinario organizzatore di gioco. La Juve è una squadra europea, e non è un caso che sia l'unica superstite italiana in Champions League. Lo è per mentalità sul campo, perché vuole sempre imporre il proprio gioco su tutti i campi. E lo è a livello societario, perché riesce a programmare il futuro in modo più lungimirante di ogni altra grande squadra italiana: i risultati degli ultimi due anni sono una conseguenza anche del progetto del nuovo stadio iniziato da Giraudo e Moggi, e realizzato poi dopo il 2006. Programmazione: un'altra parole chiave sconosciuta all'Inter, almeno da quando nel 1995 Moratti è presidente. Diciotto allenatori in diciotto anni, e una marea di buoni giocatori, qualche fuoriclasse, comprati senza un progetto che si sono persi. Quasi due anni fa, dopo l'addio di Leonardo, scrissi che per l'Inter si stava aprendo un periodo molto difficile (clicca qui). Ero stato facile profeta, perché si stava chiudendo un ciclo, quello dei senatori dello storico triplete, e mancava una società capace di ricostruire un futuro vincente. Quella società manca ancora, e temo mancherà sempre, finché il suo presidente sarà Massimo Moratti.
Un girone dopo tornano in mente le parole di Strama dopo il colpo grosso nella tana del nemico. E suonano beffarde.

domenica 17 marzo 2013

L'Italia nel pallone


Dietro a ogni crisi ci sono rischi e opportunità. Rischi di ridimensionamento, o nel peggiore dei casi di fallimento. Opportunità di riflessione sulle cause e di ripartenza su basi più solide. La crisi non va demonizzata o temuta come il peggiore dei mali perché tutti i sistemi - economici, sociali, politici - e persino tutti gli individui prima o poi si trovano a farci i conti. Non è qualcosa di astratto e raro, la crisi è parte dell'esistenza e non chiede paura. Pretende rispetto.
La difficile situazione che attraversa oggi il calcio italiano non deve stupirci, perché era largamente preannunciata e perché arriva in un Paese che da vent'anni fatica tremendamente a rimanere competitivo. Il calcio è né più né meno che una delle molte industrie impantanate di questo Paese. Un'industria in cui chi molti anni fa avrebbe dovuto aprire onestamente gli occhi alle difficoltà e cercare di arginarle ha continuato a ripetere che andava tutto bene. Un'industria in cui chi avrebbe dovuto realizzare le riforme necessarie per riattivare un circolo virtuoso ha preferito nascondersi dietro a una Champions League conquistata da un portoghese e da una flotta di brasiliani e argentini. Sventolando quel trofeo come un successo made in Italy.
Le cause della profonda crisi del calcio italiano sono molte e non solo strutturali, ma anche culturali. Sono soprattutto ataviche se accostate al panorama calcistico internazionale con cui da sempre ci confrontiamo. Il nostro movimento non ha saputo guardare a un futuro diverso da quello del giorno dopo e queste sono le conseguenze: un gap di almeno dieci anni dai campionati migliori - Inghilterra, Germania, Spagna.
Le cause sono strutturali, perché l'Italia è l'unico paese dove gli stadi non sono di proprietà dei club, ma sono ancora gestiti dai Comuni. Di conseguenza gli impianti sono vecchi, inadeguati e fatiscenti, e le società perdono soldi - sia perché gli impianti non attirano spettatori, sia perché non gestendoli direttamente non possono sfruttarne tutte le potenzialità economiche connesse (ristoranti, negozi, centri commerciali, altre attività commerciali legate alla partita di calcio). Una ricerca datata ormai al 2004 sulla situazione degli stadi italiani fotografava con questi numeri la condizione degli impianti di A e B: il 33% sono stati costruiti tra il 1920 e il 1937, il 27% è stato realizzato tra il 1950 e il 1970 e il restante 33% tra il 1972 e il 1990, anno dei Mondiali di calcio italiani. Sono passati nove anni da quella ricerca ma le cose non sono affatto cambiate, fatta eccezione dello Juventus Stadium che nel nostro paese è stato accolto come un impianto rivoluzionario, ma che negli altri paesi è la normalità. In Premier League 20 club su 20 sono proprietari dello stadio in cui giocano e nella Liga spagnola 7 su 20. Il calcio tedesco, da parte sua, ha saputo sfruttare i Mondiali del 2006 come una grande opportunità per allinearsi agli standard più elevati in materia di impianti. Il calcio italiano invece non ha saputo evolversi coi tempi, voltare pagina e guardare al futuro. E così si è creato un gap dai paesi calcisticamente migliori, un divario che aumenta ogni giorno di più. Puntualmente tra gennaio e febbraio vengono rinviate molte partite per neve (pensate allo scorso anno) - con conseguente alterazione dei calendari, della regolarità del torneo e infinite polemiche - e la questione stadi torna momentaneamente in agenda. Poi il maltempo passa, e del problema non parla più nessuno. Ma da un brutto teatro non potrà mai uscire un grande spettacolo. Il cuore del calcio sono i tifosi, gli stessi tifosi che ora preferiscono sempre più il divano allo stadio. Serve una legge sugli stadi, è un'ovvietà e lo dicono tutti, da anni. E sono anni che nessuno fa niente, concretamente. Sempre in attesa di non si sa che cosa.
Ma le cause del ritardo non sono solo strutturali, sono anche culturali. E qui il discorso si fa più profondo e non riguarda solo il calcio. Riguarda la società e la politica stessa - se pensiamo che quasi tutte le curve degli stadi italiani sono dichiaratamente politicizzate, molto spesso su posizione estremiste. Gli stadi appaiono evidentemente come enormi casse di risonanze per pochi ma rumorosi fanatici estremisti - persone che con il calcio e lo sport in generale non hanno niente a che fare, ma che finiscono col compromettere molto spesso il clima di serenità che dovrebbe accompagnare la partita di calcio. Violenza, razzismo, ricatti alle stesse società di cui - così dicono - sono primi tifosi. E il calcio italiano sprofonda sempre più in basso. La depoliticizzazione delle curve è un passaggio fondamentale verso l'affermazione di una nuova cultura sportiva. Anche di questo si è parlato molto e fatto pochissimo. 
Dalle crisi si può uscire migliori, ma si può anche non uscire. Il calcio italiano è a un bivio.